giovedì 10 marzo 2016

SUPER POLITICALLY CORRECT - 4/5

SUPER POLITICALLY CORRECT

di Chiara Lico


Eccomi di nuovo qua. Michelino per servirvi, presente all'appello.
“Oggi non è andata male per niente”, faccio cenno a Genny. Mi tocco le tasche e comincio a tirare fuori una dopo l’altra la refurtiva. Tre gomme da cancellare, due replay di quelle che con la ricarica che costano un botto ma scrivono fico, una matita sola perché mi bucava la coscia.
Tutto fregato, certo. Durante la ricreazione, ovvio. Sono un mago, nessuno si accorge di niente e il giorno dopo fioccano le mail ai genitori da parte della insegnanti con la richiesta di guardare nelle cartelle dei figli per vedere se per caso non abbiano “materiale didattico non di loro proprietà”.
“Tutto sta in come inguatti le prove, è la che si vede lo stile”, sorrido.  
“Buon sangue non mente”, mormoro Genny. L’ho guardato come si guarda un cane che fa la cacca addosso a una mini cooper appena lavata. S’è messo paura e ha fatto bene, dico io. Inutile che lo dico, no? Cinque dita in faccia tanto per gradire.
Che poi alla fine io non sono tanto male, una gomma da cancellare l’ho regalata anche a quella cessa di mia sorella: “Tieni, le ho detto, cancellati i lineamenti”.
“Cretino”.
Vorrei dirle tante cose ma sto zitto perché se no va a finire che mi tira di nuovo lo smalto blu come quella volta che l’ho schivato alla grande ma poi abbiamo dovuto comprare un divano nuovo.
Alla fine non resisto.
“Dici?” Guardo Sofi, scuoto la testa. Non sarà mai come nostra mamma. Lei sì che è una professionista, a volte la guardo e cerco di riconoscerla: due anni fa sembrava la Barbie. Ma non quelle brutte che fanno adesso per far contente le racchie. Quelle politically correct, come dice la Ragnatela. Altroché. La Barbie quella fica, la vera Barbie. Senza patata e senza occhi da androide. Uno schianto, la mamma è uno schianto. Io non lo so com’era prima perché la sua faccia vera credo di non averla mai vista, poi però s’è ammalata. Plastichite,  mi sa che si chiama.
“Torno subito, il tempo di una punturina. Tu fai il bravo e copia le a per bene, poi io te le ricontrollo”, mi ricordo questa frase e mai un compito rivisto.
“Tesoro, sei uno schianto”, la Ragnatela va in visibilio per ogni “ritocchino”, così li chiama senza riuscire a chiudere bene la bocca quando parla. Mamma sorride e sbatte gli occhi come un cerbiatto.
Scene che restano impresse.
“Così mi lasci avanti…” sorride la Ragnatela “… Mentre tu te ne vai indietro negli anni….Non sei per niente politically correct, tesoro”.
Rimarrei ore a guardarle. Sono due mostri della natura. Due sorelle che se andranno avanti così dovranno ripresentarsi a ogni Natale.  Mamma la adoro, ma zia Mimmi, detta la Ragnatela, è insostenibile allo sguardo. Dire che ha esagerato è poco, a giudicare da come la guardano per strada. In più, rispetto alla mamma, è marrone. Nel senso che si fa lampade su lampade.
Tra l’altro, voglio precisare che “zia” lo dico così, per educazione borghese. In realtà io la chiamo Ragnatela in onore a tutte le sue rughe. Le quali, da quel che ho capito sono comprese nel prezzo delle suddette lampade.
Mamma però non sta a livello della Ragnatela. Diamole tempo, è di quattro anni più giovane. Però è vero anche che negli ultimi tre anni ha cambiato faccia tre volte. Adesso sembra un viado, tra lei e il nostro Boxer non c’è nessuna differenza. Per dire quanto è democratica. Altro che se non è politically correct. Soprattutto è la mia mamma, e io le voglio bene.
Sofi invece non la sopporto. "Violetta de noantri”, le sussurro all’orecchio quando la vedo che fa la bocca a cuore davanti allo specchio. Lei e le amiche sue, una più scorfana delle altre. Chiuse tutti i pomeriggi dentro al maneggio a spazzolare i cavalli, ognuna il suo. “Noi andiamo al mane a studiare”, “Ok, ci vediamo dopo al mane”, “Vieni oggi al mane?”. Mai una di loro che finisse una parola. 
Ci sta che un giorno mi metto stuzzico il cavallo così quello assesta a ‘ste scioperate un calcio come si deve. Ma che è uno sport il cavallo? Correte, piuttosto,  che siete tutte grasse.
Papà oggi mi sembra più assorto che mai. Fissa il Laipad come un ossesso. Controlla carte, dati, numeri. Ha tutti i cellulari schierati in assetto di guerra sul tavolino davanti al divano. Li prende in mano uno a uno. Li guarda con attenzione. Li apre, cambia le schede che ci sono dentro. Poi da sotto al divano ne tira fuori uno nuovo. Ci mette una scheda dentro, ma dove le trova tutte quelle schede?
“Con quello che ti pago, vedi di evitare il rinvio”. Quando la mia mamma attillatissima è passata lui l’ha rincuorata:  “Tempo due giorni, poi butto via anche questo”. “Bravo”, gli ha detto mamma quando lo ha visto , “Meglio essere prudente”.
I due poliziotti stanno sempre qua sotto, ormai sono due mesi. Se sono stanchi si siedono in macchina, se no, ogni tanto passeggiano. Sempre vicino al portone. Io li tengo d’occhio e appena posso lancio l’impossibile. Ho capito che finché ci stanno loro papà non uscirà mai di casa.
Cioè, io non è che sono scontento. Anzi, se ci penso sono proprio fortunato. A parte la dislessia, ovvio. Il Berlucci, ad esempio, scrive nei pensierini che il padre non c’è mai , che è sempre in viaggio per lavoro, che a lui gli manca tanto. Io, Michelino Burghèss, di certo non posso dire questo: mio padre è uno di quei padri che, si può proprio dire, ci sono sempre. Però ogni tanto due calci al pallone mi piacerebbero. Tipo, che ne so, giocare a tiri in porta, come fa Carlo Alberto, che il padre si ritaglia, dice proprio così, “si ritaglia” una mezz’ora a settimana dopo il lavoro, prima dello squash con il colleghi e dopo il kart con gli amici, per portarlo al laser tag. 
“Meglio a casa che al gabbio”, ha detto l’altro giorno Genny. L’ho guardato e insieme abbiamo finito la frase: “L’hanno detto i miei”… Troppo, sono d’accordo con voi. Non s’è regolato lui e non mi sono regolato io: ho sentito un caldo strano che mi risaliva dalla pancia e senza avere il tempo di pensarci, gli ho fratturato un braccio, sì. Non è stato facile ma alla fine ci sono riuscito. Bloccato a terra e ci sono ricaduto sopra di peso.
Tre giorni a casa. Sospeso.
“Con obbligo di frequenza?”, ha chiesto sorridendo la mia mamma cotonata alla direttrice.
“No, a casa”.
E così eccomi qui. Ecco perché ho il tempo di scrivere questo diario:. perché per punizione mi hanno dato il compito di descrivere la mia famiglia.
“Tale padre, tale figlio”, pare che abbiano detto i genitori di Genny. Me lo ha riferito lui via Skype, devo collegarmi con lui tutti i giorni, ha detto la maestra, per sapere come sta e rendermi conto di quello che ho combinato.
E vi garantisco che essere costretti a stare dentro casa per forza non è che sia proprio il massimo. Oltretutto c’è pure questo: che pensi e pensi. E più pensi più rifletti e più rifletti, più ti vengono in mente i danni che puoi fare appena esci fuori. 
Guardo papà. Chissà che cosa sta pensando, lui. Che idee mai si starà facendo venire in mente, più fiche ancora di quelle che ha avuto finora? Come quella volta che in un giorno solo è andato e tornato da isole lontanissime per  una questione di lavoro? Oppure quella volta che s’è comprato e vendute dieci barche nel giro di un’ora? Perché parliamoci chiaro: ci saranno pure papà che giocano a Trivial con i figli, non dico di no. E ci saranno pure quelli che vanno a correre con loro, a giocare a pallacanestro, che organizzano feste e giochi con i compagni di classe. Ma dove lo fabbricano un altro papà che riesce a giocare a Transformer per davvero? Cioè, lo sapete quanti passaporti ha mio padre, Gioacchino Burghèss? Sparate un numero, non ce la farete mai. Ve lo dico io: minimo trentadue. Lui non lo sa che lo so: ne parlavano al bar l’altro giorno, dice che lo avevano sentito in televisione. Da piccolo doveva essere un dio a “Indovina chi”. Un dio vero. Un Superman. Che va, fa quello che deve fare veloce, ogni volta con un aspetto che non è il suo, e poi, come Klark Kent ritorna qua con la sua vera faccia. Lui, ha ragione lo zio Dodo, è proprio vero che è uno che gli anni che gli danno non cerca mai di ridurseli. Politically correct ci sta tutto. Anzi. Super – politically correct.
  

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